Le mie mani riposano sui bracciali del sofà: ora mi accomodo bene, tiro su anche le gambe, e me ne sto dolcemente rannicchiato tra le braccia del vecchio divano. Dalla finestrella aperta vedo la scena familiare della strada, col campanile dominante sul fondo. Sul tavolo sono alcuni fiori. Portapenne, matite, una conchiglia che fa da fermacarte, il calamaio. nulla qui è mutato.
E così sarà, se sarò fortunato, quando a guerra finita, ritornerò per non più ripartire. Starò qui come adesso, e guarderò la mia camera, aspettando.
(...)
Siedo e aspetto.
(...) E' la mia cameretta che deve parlare (...)Muti si allineano i libri, l'uno accanto all'altro. Li riconosco, ricordo l'ordine con cui li ho disposti.
(...)
Mi alzo e, stanco, guardo fuori dalla finestra. Poi prendo in mano uno dei libri, e lo sfoglio per mettermi a leggere : ma subito lo ripongo e ne prendo un altro. Vi sono dei brani segnati in margine. Cerco, sfoglio, prendo sempre nuovi libri; ormai ne ho un mucchio accanto a me. altri ne vado cercando, sempre più affannosamente, e carte, quaderni, lettere. E davanti a tutto ciò me ne sto muto, come davanti a un tribunale, scoraggiato. Parole, parole, parole, che non mi raggiungono più.
Mi alzo e, stanco, guardo fuori dalla finestra. Poi prendo in mano uno dei libri, e lo sfoglio per mettermi a leggere : ma subito lo ripongo e ne prendo un altro. Vi sono dei brani segnati in margine. Cerco, sfoglio, prendo sempre nuovi libri; ormai ne ho un mucchio accanto a me. altri ne vado cercando, sempre più affannosamente, e carte, quaderni, lettere. E davanti a tutto ciò me ne sto muto, come davanti a un tribunale, scoraggiato. Parole, parole, parole, che non mi raggiungono più.
Lentamente ricolloco i libri nello scaffale.
Erich M. Remarque, autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, militò nell’esercito tedesco durante il I conflitto mondiale. Il romanzo, dunque, nasce da un’esperienza diretta della guerra .
La voce narrante è quella di Paolo, un giovane tedesco che, insieme ad altri compagni di classe, si arruola giovanissimo, spinto dal diffuso sentimento nazionalista che non risparmiava neanche le scuole. Fu proprio un insegnante, Kantorek, ad invogliare i ragazzi a “servire” la patria e a chiedere di essere mandati al fronte.
Nelle ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi, finché finimmo col recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata, al Comando di presidio, ad arruolarci come volontari. Lo vedo ancora davanti a me, quando ci fulminava attraverso i suoi occhiali e ci domandava con voce commossa: “ Venite anche voi, nevvero, camerati?”
Codesti educatori tengono spesso il loro sentimento nel taschino del panciotto, pronti a distribuirne un po’ ora per ora. Ma allora noi non ci si dava pensiero di certe cose.
Ce n’era uno, però, che esitava, non se la sentiva. Si chiamava Giuseppe Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo. (…) Può darsi che parecchi altri la pensassero allo stesso modo; ma nessuno poté tirarsi fuori; a quell’epoca persino i genitori avevano la parola “vigliacco” a portata di mano. (…) Kat sostiene che ciò proviene dall’educazione, la quale rende idioti. (…).
Per uno strano caso fu proprio Bhem uno dei primi a cadere.
Prima ancora che muoiano i primi compagni, già durante il periodo di addestramento, i ragazzi si rendono conto della vacuità della retorica nazionalista.
In dieci settimane ci formarono alla vita militare, e in questo periodo ci trasformarono più profondamente che non in dieci anni di scuola. Stupefatti dapprima, esasperati poi e infine indifferenti, dovemmo riconoscere che ciò che conta (… ) non è il pensiero ma il sistema, non la libertà ma lo “scattare”. (… ) Coi nostri giovani occhi aperti vedemmo come il classico concetto di patria, quale ce lo insegnavano i nostri maestri, si realizzasse per il momento in una rinunzia della personalità, quale mai si sarebbe osato imporre alla più umile persona di servizio. Saluto, attenti, passo di parata, presentat’arm, fianco dest’, fianco sinist’, battere i tacchi, cicchetti e mille piccole torture.
Una volta sul fronte, la guerra si rivela per quello che è : un meccanismo disumano che toglie ai ragazzi illusioni, futuro, possibilità di essere degli individui dotati di sensibilità e del diritto di fare delle scelte.
La vita qui sui confini della morte ha una linea straordinariamente semplice, si limita all’indispensabile: tutto il resto è addormentato e sordo (…).
Tutte le altre manifestazioni sono come in letargo, la nostra esistenza è soltanto un ininterrotto vigilare contro la minaccia della morte. Questa vita ci ha ridotti ad animali appena pensanti, per darci l’arma dell’istinto; ci ha impastati di insensibilità, per farci resistere all’orrore che ci schiaccerebbe se avessimo ancora una coscienza limpida e ragionante; ha svegliato in noi il senso del cameratismo, per strapparci all’abisso del disperato abbandono; ci ha dato l’indifferenza dei selvaggi per farci sentire, ad onta di tutto, ogni momento della realtà, e per farcene come una riserva contro gli assalti del nulla.
Il romanzo ben illustra in cosa consista l’orrore a cui, di necessità, per non impazzire, Paolo e gli altri finiscono per “abituarsi” e così Remarque descrive la morte silenziosa in ospedale di Kemmerich, un biondino diciottenne i cui stivali passano a un compagno di classe, Muller, pronto a prenderli appena Kemmerich fosse spirato, stivali che poi passano a qualcun altro una volta morto anche Muller. Le cose diventano importanti quanto o più delle persone e gli uomini appaiono nella loro materialità: sono carne, brandelli di carne, sono i loro oggetti ( un orologio, il libretto di riconoscimento ) persino i loro corpi, una volta morti, sono riparo per i vivi. Emblematica, a questo proposito, la sequenza in cui, durante un attacco, le granate dell’esercito nemico finiscono per colpire i poveri resti dei soldati seppelliti nel cimitero e Paolo e i suoi amici si aggrappano ai cadaveri per farsene scudo. E’orrore quello che Paolo prova quando guarda per la prima volta in faccia un soldato del fronte opposto che ha ferito a morte. E’ orrore anche quello che sempre Paolo prova durante una licenza. Torna a casa e capisce che il anche il suo passato, oltre al suo futuro, gli è stato sottratto. Non riconosce più nulla, non trova conforto in niente, neanche nei suoi libri, nella sua cameretta.
Siedo e aspetto.
(…) E’ la mia cameretta che deve parlare. (…)
Muti si allineano i libri, l'uno accanto all'altro. Li riconosco, ricordo l'ordine con cui li ho disposti.
(...)
Mi alzo e, stanco, guardo fuori dalla finestra. Poi prendo in mano uno dei libri, e lo sfoglio per mettermi a leggere : ma subito lo ripongo e ne prendo un altro. Vi sono dei brani segnati in margine. Cerco, sfoglio, prendo sempre nuovi libri; ormai ne ho un mucchio accanto a me. altri ne vado cercando, sempre più affannosamente, e carte, quaderni, lettere. E davanti a tutto ciò me ne sto muto, come davanti a un tribunale, scoraggiato. Parole, parole, parole, che non mi raggiungono più.
Mi alzo e, stanco, guardo fuori dalla finestra. Poi prendo in mano uno dei libri, e lo sfoglio per mettermi a leggere : ma subito lo ripongo e ne prendo un altro. Vi sono dei brani segnati in margine. Cerco, sfoglio, prendo sempre nuovi libri; ormai ne ho un mucchio accanto a me. altri ne vado cercando, sempre più affannosamente, e carte, quaderni, lettere. E davanti a tutto ciò me ne sto muto, come davanti a un tribunale, scoraggiato. Parole, parole, parole, che non mi raggiungono più.
Lentamente ricolloco i libri nello scaffale.
Paolo è un ancora un ragazzo, ma si sente vecchio.
Non siamo più giovani, non aspiriamo più a prendere il mondo d’assalto. Siamo dei profughi, fuggiamo noi stessi, la nostra vita. Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro.
La realtà di Paolo è la guerra. Ci sono momenti in cui il gruppo di Paolo si interroga sul perché un conflitto scoppi.
“ Generalmente è perché un paese ha fatto grave offesa a un altro” risponde Alberto, con cert’aria sentenziosa.
Ma Tjaden fa il tonto:” Un paese? Non capisco. Una montagna tedesca non può offendere una montagna francese: né un fiume, né un bosco, né un campo di grano…”
(…)
“Ma mio caro uomo, si tratta del popolo come collettività, ossia dello Stato” grida Muller.
“Stato, Stato” e Tjaden con aria furbesca fa schioccare le dita “ guardie campestri, polizia, tasse, ecco il vostro Stato. Se è tuo parente ringrazialo da parte mia”.
“Giusto” dice Kat “hai detto per la prima volta qualcosa di buon senso, Tjaden. Lo Stato e il paese sono veramente due cose diverse.”
“Ma vanno connesse l’una con l’altra “ osserva Kropp;” un paese senza lo Stato non esiste. “
“Vero: però rifletti un po’ che siamo quasi tutta povera gente. E anche in Francia la maggioranza sono operai, manovali, piccoli impiegati. Perché mai un fabbro o un calzolaio francese dovrebbe prendere il gusto di aggredirci? Credi a me, sono soltanto i governi. Prima di venire qui, io non avevo mai visto un francese, e per la maggior parte dei francesi sarà andata allo stesso modo quanto a noi. Nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro.”
“E allora a che scopo la guerra?” domanda Tjaden.
Kat alza le spalle: “ Ci deve essere gente a cui la guerra giova”.
Kat sarà uno degli ultimi del gruppo a morire: a tenerlo in vita più a lungo degli altri era stata la maggiore esperienza, la conoscenza di sé e degli uomini.
Gli unici momenti sereni del romanzo sono quelli in cui Kat riesce a restituire una parvenza di vita normale ai suoi amici, procurandosi cibo anche dove pare non ce ne sia neanche l’ombra o risolvendo piccoli problemi.
Ma non basterà neanche la sua saggezza a fargli salva la vita. Una minuscola scheggia casualmente lo colpirà proprio a guerra quasi conclusa. Paolo lo seguirà poco tempo dopo. Morirà nell’ottobre del 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole :” Niente di nuovo sul fronte occidentale”.
Grande libro. Lo dovrei rileggere...mi giro e lo vedo, lì in alto a sinistra.
RispondiEliminaDevo fare una pila dei libri che vorrei rileggere...da affiancare a quella dei ibri da leggere.
dovrei smettere di angosciarmi e lamentarmi, e ringraziare soltanto gli Dèi, perché davvero io vivo in una ex cameretta (oggi mio studio) piena di libri (e con vista sulle camerette degli amici e amiche di blog...) :D
RispondiEliminaparole, tante parole affollano la mia mente,
RispondiEliminasi accalcano, si sovrappongono e restano lì....
inutili parole che non giungono al cuore.....
- Sandra: Ne ho parlato in questi giorni ai miei alunni che mi hanno fatto silentemente intendere che lo hanno apprezzato: non hanno protestato quando ho preannuciato che leggeranno a breve un altro romanzo... Tu, in quanto insegnante, puoi capire la mia segreta gioia.
RispondiElimina- Nicky: Sono d'accordo con te. Mi ritengo fortunata anch'io. Ho appena rivisto "Big fish" di Burton. Penso tu conosca questo film. Un uomo finisce per essere ciò che si racconta... Avere uno spazio segreto dove leggere e, nel tuo caso, scrivere storie, significa essere tutte quelle storie , quindi, essere dei giganti dalla lunghissima, mai del tutto conclusa esperienza. Buonanotte, nel caso in cui la finestra della tuo studio fosse ancora aperta sulla mia! tvb.
- Pina: A volte, cara, ne tratteniamo troppe. Io direi di farne rimbalzare qualcuna... Provare per credere! Bacio della buonanotte!
Che bello questo brano, benché intriso di grande malinconia. Il giorno in cui le parole dei miei libri non mi raggiungessero più, sarebbe un ben triste giorno.
RispondiElimina- Bello e terribile... Venendo dalla trincea, il protagonista del romanzo, Paolo, si rirova a casa in licenza. La verità cruda della guerra, sottraendogli ogni illusione, lo ha privato della possibilità di riconoscersi in ciò che aveva amato, i libri. Mi ha colpito questo passaggio, più di altri, proprio per la ragione che tu hai suggerito.
RispondiEliminaestraniarsi da se stessi...
RispondiEliminaperfino le cose che ti circondano, che sono parte di te, lo dicono... perché nemmeno quelle puoi riconoscere... né più trovare conforto in esse...
questa disgregazione interiore mi fa venire in mente il Piovene di Verità e Menzogna (anche se non è proprio attinente...) quando dice:
"L'uomo vive soltanto di religione e d'illusione, se ne è privato interamente si uccide, nella verità non può vivere. Eppure, indifferente, insensibile come sono diventato, un sentimento resta vivo, il rifiuto d'essere illuso. Qualunque cosa, fuorché illudermi. E' un sentimento, come vedi, che non contiene nulla, non dipende da una morale, ma da che cosa? Non lo so: disgusto, insofferenza, disprezzo? So però con certezza che in nessun modo posso vivere; no illudendomi e mentendo a me stesso, no dicendomi la verità ed essendo sincero. La bugia ci fa imputridire (guardati intorno), la verità dissecca e brucia."
un saluto
Maria (dalloway66)
-La bellissima citazione che hai lasciato mi fa pensare al pessimismo titanico leopardiano, quello della "Ginestra",l'arbusto che, pur nelle condizioni più difficili, continua ad opporre al vuoto, all'aridità il proprio colore, il proprio profumo. Vive per questo e la poco acqua che ha le è sufficiente...
RispondiEliminaQuanto alle situazioni di estraniamento...Ho imparato a prendere atto che, in particolari condizioni, forse quelle in cui la dignità personale è violata, umiliata, compromessa, è davvero difficile, trovare qualcosa da opporre all'orrore del vero.
Ti ringazio Maria, sono felice di averti qui. A presto, spero!
Bellissimo libro e a volte mi capita quello che dice lui. Prendo libri e poi ancora libir e in certi momenti mi sembra che non possano dirmi nulla. Per fortuna è solo un momento che passa.
RispondiEliminaCiao, un caro saluto
Giulia
Ciao, Giulia! Non mi sorprende ciò che mi dici. Sei stata una delle madrine del mio blog neonato, visto che, gentilmente, non mi hai lasciato sola e, una volta appurata la mia esistenza in etere, mi hai fatto capire, tornando a visitare il mio blog, che ciò che pubblicavo poteva destare l'interesse di qualcuno. Così, ho continuato a seguirti e a "conoscere" l' impegno e la passione che ti distinguono e che incoraggiano tanti a leggerti ed apprezzarti. Forse i momenti di "vuoto" sono più frequenti se gli obiettivi sono elevati. La frustrazione è sempre dietro l'angolo, se c'è qualcosa che spegne gli entusiasmi, e questi sono tempi difficili. Penso, però, che ciò che si crea con amore resti e sia prezioso. Un affettuoso saluto
RispondiEliminaHo letto il libro ancora ragazzetto, credo proprio nell'edizione tascabile che hai messo nella fotografia. L'ho riletto più volte. Esempio di grande scrittura, ma ancor più denuncia equilibrata degli orrori della guerra: per me un viatico in materia. Ho letto, poi, quasi tutto Remarque, desumendone la più parte della mia personale conoscenza dei tempi di Weimar. Ricordo, ancora, una intrigante conversazione con dotta persona che certamente più di me conosceva questo autore.
RispondiEliminaMagnifico libro, Adriano. Le cose appaiono per quel che sono ( la guerra, i meccanismi che la determinano, i sentimenti che si sviluppano nelle condizioni estreme ) e la scrittura, forse anche per questo, è limpida, autentica. Non ho letto altro di Remarque, ma provvederò; Weimar ha espresso forse le opere dela letteratura tedesca che prediligo. Grazie!
RispondiEliminasul mio comodino attualmente c'è il Sé Sinaptico di LeDoux... magari un giorno mi darò a qualcosa di più romanzato, chi sa...
RispondiEliminacomplimenti per le suggestive foto in bianco e nero!
- Anna: Mi hai incuriosito ed ho cercato qualcosa sul Sé sinaptico. Il problema natura/cultura... Uhm... Spero di leggere qualcosa sul tuo blog dopo la tua lettura del testo di LeDoux.
RispondiEliminaCiao!
... mi ritrovo a volte...
RispondiEliminaQuando ho tempo vorrei leggerli tutti... sono indecisa... annuso... tocco... stringo... guardo...scelgo... mi immergo e comincio a seguire un nuovo cammino... comincia un nuovo mondo.
- Si, comincia un nuovo mondo, o, più semplicemente prende forma il nostro... :-)
RispondiEliminaMi sorprende sempre la grandissima "modernità" dei cosiddetti classici - quelli che valgono, quelli che hanno creato la letteratura (e il mondo) di oggi. Ad agosto ho scoperto Dickens; a settembre sono stato folgorato sulla strada per Flaubert. I pezzi di Remarque che riporti sembrano promettere bene ("E' la mia cameretta che deve parlare", ad esempio). Messo nella lista dei desideri.
RispondiEliminaA presto!
Paolo
-Paolo
RispondiEliminaSono rimastra sorpresa anch'io dal romanzo di Remarque. Dovrebbe piacerti.( Naturalmente, mi sono fatta un'idea della tua sensibilità attraverso la tua bellissima raccolta di racconti... )
Flaubert piace molto anche a me. Ha davvero una sensibilità "moderna", attenta a registrare ogni moto dell'anima e, a volte, venata di una sottile, autolesionistica perfidia ( non è forse il termine giusto, ma in questo momento non riesco a trovarne un altro !).
Grazie per essere passato di qui!:-)))
benvenuta...
RispondiEliminasono sicuro che avrò molto da imparare nella tua casa!!!
Sono venuta a passeggiare un po' te e ho trovato questo bellisimo post su Remarque. È stato un libro fondamentale per me. L'ho letto a quattordici anni e ho capito, meglio che da altre letture, l'orrore e la profonda desolante ingiustizia della guerra.Erano gli anni,in cui ancora si facevano i cineforum e due film mi fecero la stessa impresione di Remarque: E Johnny prese il fucile di D. Thrumbo e Orizzonti di gloria di Kubrick. Sulle mie idee sulla guerra e sul mio pacifismo incondizionato, anche in tempi recenti, non sono mai tornata indietro. Grazie di aver riproposto questo testo.
RispondiEliminaGrazie: che bello trovarti a passeggio qui! :) Non aggiungo altro al tuo commento se un grazie! Bacio
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