"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni uomo straniero è nemico “. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il Lager." ( P. Levi,
Se questo è un uomo )
Primo Levi, chimico torinese, ebreo, oltre che partigiano, fu catturato dai fascisti alla fine del’43. Dopo essere stato internato nel campo di Fossoli, venne deportato nel ’44 ad Auschwitz dove rimase fino alla liberazione per opera dei soldati sovietici.
Le prime pagine del libro sono destinate al racconto del momento della deportazione:
"Qui ci attendeva il treno (…) .Qui ricevemmo i primi colpi. E la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo, né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici , e noi seicentocinquanta. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. (… )Questa volta dentro siamo noi."
Dopo quattro giorni il convoglio arriva a destinazione. Solo centoventi vengono selezionati per i campi di lavoro, gli altri cinquecento vengono mandati direttamente nelle camere a gas. Primo Levi va a Monowitz, dove si trova una fabbrica, la Buna, in cui si produce gomma.
La dimensione del lager è , al primo impatto, così inverosimile da determinare negli internati uno stato di totale disorientamento. Si perde coscienza di sé, così come del tempo.
"Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo. (… ) Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; (… ) Si comprenderà allora il duplice significato del termine “ Campo di annientamento “."
Il regolamento e le norme esplicite ed implicite che vigono nel lager costituiscono il corpo dei capitoli successivi a quello introduttivo. Tra le procedure paradossali, apparentemente incomprensibili in una dimensione desolata e disperata come quella del lager, Levi descrive il rito delle marce di entrata e di uscita dal lavoro accompagnate da musica:
"I motivi sono pochi, (...)sono la voce del lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica le sospinge come fa il vento con le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa di muscoli sfatti. (… ) Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti (… ) ?"
Le considerazioni appena riportate vengono fatte da Levi durante i giorni passati in infermeria, l’unico luogo in cui diviene davvero possibile prendere coscienza di ciò che succede nel campo. Naturalmente tale consapevolezza procura sofferenza, un tipo di dolore diverso da quello derivante dalle disumane condizioni di sopravvivenza nel lager.
La sofferenza si traduce, nei rari sogni notturni, in una situazione ricorrente, quella di chi spiega ad una persona cara ciò che sta succedendo ma trova solo indifferenza:
"Alberto mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce così costantemente , nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata ?"
Nel lager la lotta per la sopravvivenza avviene senza remissioni, perché ognuno è disperatamente solo. Chi è temuto è un candidato a sopravvivere .
A chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto, questa la legge non scritta del lager. I “sommersi” soccombono per incapacità di adattamento. Sono già spenti e vuoti, già morti.
"Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani ( i “sommersi” ) che vanno al gas hanno la stessa storia. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano ad imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo."
Chi riesce invece a sopravvivere? Chi sono “ I salvati “ ? Levi dice che sopravvive al lager chi riesce ad avere qualche incarico ( Kapos, infermieri, cuochi, scopini … ):
"Essi sono il tipico prodotto della struttura del lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, (… ) esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. (… ) Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati con diritto di vita e di morte su di essi, sarà crudele e tiranno, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua capacità di odio rimasta inappagata in direzione degli oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto."
Ma, oltre a questi, Levi individua tra i “ salvati “ una vasta categoria di prigionieri composta da chi dà battaglia ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, resiste ai nemici e non ha pietà per i rivali nella lotta per la sopravvivenza, strozza ogni dignità e spegne ogni lume di coscienza per scendere in campo da bruto contro altri bruti.
Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, non è stato concesso, dice Levi, che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri o dei santi.
"Vorremmo far considerare come il Lager sia stato(… ) una gigantesca esperienza biologica e sociale. (… ) Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi (… ) e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti ed inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale uomo di fronte alla lotta per la vita. (… )Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto(… ) ma, piuttosto che (… ) di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio. Ci pare comunque degno di attenzione un fatto : viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune (… ), perché normalmente l’uomo non è solo e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini(… ). Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge e dal senso morale, che è legge interna (… ). Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo."
Tra gli individui che riescono a conservare una umanità pura e incontaminata, un uomo, Lorenzo.
Questo è quanto Levi dice di lui:
"Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi: e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora di puro e intero, di non corrotto e selvaggio, estraneo all’odio e alla paura."
Per tutti gli altri il giudizio è ben diverso:
"I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui, (… ) accomunati in una unitaria desolazione interna."
Levi deve la sua sopravvivenza anche e soprattutto ad una circostanza fortunata. Ha l’opportunità, infatti, come chimico, di avere un incarico nel laboratorio della Buna. In realtà continuerà a svolgere mansioni secondarie e non attinenti alla sua qualifica, ma la sua condizione migliorerà sensibilmente.
Con amara ironia, Levi spiega anche un altro meccanismo che gli ha consentito di tirare avanti:
"Quando piove si vorrebbe piangere,(… ) bisogna cercare di muoversi il meno possibile (… )perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi. E’ una fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere.
Piove ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O, ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non sentissi altro nel cuore che sofferenza e noia, (… ) che pare veramente di giacere sul fondo, ebbene anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere."
Le ultime pagine dello scritto di Levi sono destinate a mettere in evidenza il sentimento della vergogna.
Dinanzi alla pubblica esecuzione di un deportato ribelle,
"siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha iniziato a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato dinanzi agli ultimi fremiti del morente. (… ) Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avere a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice."
Il sentimento della propria nullità, lo scoramento è tale che sebbene si fosse dato per imminente l’arrivo dei russi, nessuno riusciva davvero a credere nella possibile liberazione.
"Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. ( … )
Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. (… ) non è uomo (… ) chi ha atteso che il suo vicino morisse per togliergli un quarto di pane (… ) e non è umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato cosa vicino all’altro uomo."