olio su tela, 195 x 130 - 1954 - Peggy Guggenheim Foundation di Venezia-
Ne "L' Impero delle luci" ho rappresentato due idee diverse, vale a dire un paesaggio notturno e un cielo come lo vediamo di giorno. Il paesaggio fa pensare alla notte e il cielo al giorno. Trovo che questa contemporaneità di giorno e di notte abbia la forza di sorprendere e di incantare. Chiamo questa forza poesia.
Mongiana nasce nel 1771, sul colle Cima, in Calabria, come residenza per chi operava nelle Reali ferriere e fonderie borboniche, primo complesso siderurgico della penisola italiana preunitaria. La fonderia e lo stabilimento siderurgico occupavano un’area di 12.000 mq, con 3 alti forni per la produzione della ghisa, 6 raffinerie, 3 forni Wilkinson, che lavoravano il minerale dei giacimenti calabresi di Pazzano ricchi di ferro e grafite. Il prodotto era di eccellente qualità, superiore a quello francese ed inglese.
A Mongiana tra il 1822 ed il 1829 venne realizzato il primo ponte sospeso in ferro della nostra penisola: il "Real Ferdinando" e furono costruite le rotaie per la prima ferrovia italiana, la famosa "Napoli- Portici". Nel 1853 durante lo svolgimento dell’Esposizione Internazionale tenutasi a Napoli venne assegnata al complesso siderurgico di Mongiana la medaglia d’oro dal Corpo Accademico del Real Istituto d’Incoraggiamento alle scienze per “saggi di ferri di prima fabbricazione e per lavori di ferro fuso”.
Alla caduta del Regno borbonico e con l' inserimento del Meridione nello Stato Italiano, fu progressivamente diminuita la produzione, privilegiando le industrie del Nord Italia. Nel 1875 la ferriera venne acquistata dal senatore ex garibaldino Achille Fezzari che, dopo aver sfruttato quel che restava, chiuse l’impianto nel 1881. Scomparve così un’azienda che era stata per il Regno delle Due Sicilie il primo e più grande polo siderurgico d’Italia.
Di recente si è riusciti a recuperare i resti del complesso siderurgico ed a realizzare un eco-museo finalizzato a far conoscere la cultura industriale del territorio che la storiografia ufficiale ha trascurato, se non disconosciuto.
Attraverso il racconto di ciò che è stata un tempo Mongiana, che oggi conta meno di 1000 abitanti, si scopre che, prima dell’unità d’Italia, il Meridione aveva attività industriali fiorenti, ( gli opifici di Mongiana sono solo uno degli esempi possibili ) . Ma come osserva Pino Aprile nel suo “ Terroni” , per il governo italiano postunitario: “ La siderurgia calabrese era troppo grande, troppo a Sud. Costituiva elemento di squilibrio nei pregiudizi e nei piani. L’industria italiana doveva essere settentrionale . Gli altiforni di Mongiana, che erano i più grandi e tecnologicamente avanzati d’Italia, vennero ribattezzati “ Cavour “ e “ Garibaldi “ (… ) e poco dopo furono spenti. (…) I tecnici e le maestranze calabresi, costretti a emigrare in Umbria, furono subito assunti, per la loro competenza, nel nuovo stabilimento ( di Terni); altri finirono nel Bresciano, dove fecero la fortuna delle fonderie lombarde. (…)
A chi parla di mancanza di capacità e cultura industriale dei meridionali, la vicenda dell’ultrasecolare siderurgia calabrese racconta ben altra storia. (... )
Lumezzane
"Andammo via a famiglie intere, ( dice la signora Tripodi, originaria di Mongiana, ma amministratrice oggi di una fonderia a Lumezzane, Brescia ) (… ) noi mongianesi sradicati ci siamo ritrovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano. Siamo centocinquanta famiglie di Mongiana, circa cinquecento persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. (…)
Mongiana
Le nostre migliori forze ed intelligenze le abbiamo spese lontano da casa. Se oggi sono quello che sono lo devono anche a noi . Ma mi dispiace non averlo fatto per il mio paese. E’ un rammarico, sa? Un rammarico che sfiora la colpa: ma cosa potevamo fare? Cosa? Torno d’estate a Mongiana, bella e morente.
Si sa, i corvi della Torre di Londra godono di buona salute , protetti dagli Yeomen Warders, i guardiani dello storico sito, e non potrebbe essere altrimenti , visto che, secondo una leggenda , la scomparsa dei corvi sarebbe immediamente seguita da quella della monarchia.
Meno noto è ciò che Cervantes fa dire a don Chisciotte a proposito dei corvi inglesi:
" ... Come gli sentirono dire queste cose, lo presero tutti per pazzo; e per meglio sincerarsene, e rendersi conto di che genere di pazzia fosse il suo, Vivaldo tornò a chiedergli che cosa s'intendesse in realtà per cavalieri erranti. - Non hanno letto lor signori - rispose don Chisciotte - gli annali e le storie d'Inghilterra in cui sono trattate le gesta del re Arturo, che noi comunemente nel nostro volgare castigliano chiamamo il re Artù, intorno al quale esiste in tutto il regno di Gran Bretagna l'antica leggenda che quel re non sia morto, ma che per virtù di incantesimo si sia convertito in corvo, e che col volgere degli anni dovrà ritornare a regnare, riconquistando il suo regno e lo scettro? Tant'è vero che da quel tempo ad oggi non si troverà un solo inglese che abbia ucciso mai un corvo."
da Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes Ed. Einaudi
… e non ebbero fatti venti passi quando, dietro un masso, videro un giovane seduto ai piedi di un frassino, vestito da contadino, del quale per il momento non potevano scorgere il viso perché si stava lavando i piedi in un ruscello che lì presso correva, e perciò lo teneva chinato; ed essi gli si avvicinarono così silenziosamente che egli non li udì, intento com’era, a lavarsi i piedi, che erano tali da sembrare due pezzi di bianco cristallo spuntati fra mezzo i ciottoli del fiume. Li stupì la bianchezza e la bellezza di quei piedi, sembrando loro che non fossero fatti a calpestar zolle di terra, né a seguire un aratro e dei buoi ( … ). Il giovane si tolse il berretto e si mise a scuoter la testa da una parte all’altra e a quel gesto si andarono sciogliendo e spargendo dei capelli che i raggi del sole avrebbero potuto invidiare. Così si resero conto che quello che sembrava un contadino era invece una donna ( … ). I lunghi e biondi capelli non solo le ricoprivano le spalle, ma ne nascosero tutta la persona, e se non fosse stato per i piedi, nient’altro si sarebbe visto di lei , tanti e tali erano. E a questo punto, le fecero da pettine delle mani tali, che se i piedi nell’acqua erano parsi cristallo, le mani tra i capelli parvero di indurita neve.
Da Don Chisciotte della Mancia diMiguel de Cervantes ed. Einaudi
Maeve lasciò Dublino, dove era nata nel 1917, quando il padre, in qualità di ambasciatore della Repubblica di Irlanda, si trasferì nel ’34 a Washington.
I suoi primi scritti furono pubblicati sul “New Yorker” . Si trattava di brevi editoriali contenuti nella rubrica “ Talk of the Town “ destinati a raccontare la Manhattan degli anni '50 e ’60, in particolare quella compresa tra il Greenwich Village e l’Ottantesima Strada
Il passo che propongo descrive l’abitazione di un amico della scrittrice. Siamo sulla Decima Strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, quindi appena a nord di Washington Square.
... Sono tornata al Village e ora trascorro qualche giorno nell' appartamento di un amico che si trova a Londra. l' appartamento è piccolo, ordinato e individuale - per una sola persona, e dal momento in cui sono entrata qui giovedì con la mia valigia è rimasto distante ( cordiale ma distante ). " Noi non abbiamo segreti" sembravano dire le due piccole stanze " ma apparteniamo a "lui" ".
( ... )
Sono quasi le sei ( ... ) Un minuto fa, , o forse sono passati solo pochi secondi, c'è stato un acquazzone. Ha piovuto a catinelle. All'improvviso sono scoppiati i tuoni insieme ai lampi, e il cielo da bianco è diventato nero.
( ... )
Quando mi sono girata la stanza era piombata nella penombra, non rimaneva nulla della luce che l'aveva colpita tutto il giorno. Ora la camera è indefinita e inconsistente e appare per quello che è realmente - lo scenario accidentale di un sogno enigmatico che avevo già fatto prima, in altre stanze, e farò nuovamente, in stanze che non che non ho ancora visto. E' un sogno senza persone.
( ... )
La pioggia cade di sbieco formando delle pareti di roccia, e la sua forza ha trasformato la camera in una caverna, reale solo perchè vuota.
( ... )
La pioggia cade più rapida e nera che mai. Le finestre dell'appartamento accanto dove c'è la festa devono essere coperte di rivoli d'acqua - quasi spumeggianti - e anche la Decima strada deve essere ridotta ad un torrente di schiuma nera. ( ... ) La camera aspetta che accada qualcosa. Potrei accendere il fuoco, ma il mio amico ha dimenticato di lasciarmi la legna. Potrei accendere una lampada, ma l'elettricità non dà sensazioni vitali. Mi alzo, mi avvicino al giradischi e lo accendo senza cambiare il disco che ho sentito stamattina. Il suono si intensifica e si muove, afferrando i quadri, i libri e la mensola di marmo bianco scolorito del caminetto, come farebbe la luce delle fiamme. Ora questo posto non è più una caverna, ma una stanza con pareti che ascoltano in pace. Sento la musica e guardo la voce. Riesco a vederla. E' una voce da seguire con gli occhi della mente. " La Brave, c'est elle ". Non esiste nessun altra. E' Billie Holiday che canta.
( 11 novembre 1967 )
Da " Racconti di New York " ed. Bur
Maeve è morta nel’93. Ci ha lasciato raccolte di racconti ed un romanzo, “La visitatrice”.
- Camminare? Dove andiamo?
- Cominci a camminare.
A quell'altezza via Podzamcze correva lunga e diritta ( ... )
L' SS squarciava la neve ghiacciata con i suoi stivali ingrassati, e il suo profilo angoloso era rivolto al lucore davanti a loro. ( ... )
Cominciava a nevicare di nuovo. Come farfalle morte o ceneri spazzate dal vento, i fiocchi entravano nel cerchio luminoso in spirali stanche. Salle Weber tolse un bruscolo inesistente dal cappotto di Bora.
Nel bel mezzo della città, padre Malecki tornava a piedi dal Consolato americano. aveva appena telegrafato in Vaticano la notizia del decesso della badessa ( ... ). Incupito, percorse la Franciszkanska e imboccò la via tortuosa che conduceva alla chiesa del convento, la cui facciata barocca invadeva i marciapiedi con una scalinata di marmo.
Dalla fine della strada si alzò un fragore di cingoli metallici . ( ... ) Stridendo e rombando sul selciato, i Panzern cominciarono a sbucare dalla curva stretta di fronte a lui, dove la scalinata di una chiesa gesuita riduceva ulteriormente lo spazio. Come dinosauri, incedevano nel tanfo di carburante facendo tintinnare i finestrini e lo specchietto retrovisore dell'auto di Bora.
( ... ) si recarono insieme nel loro appartamento.
Era un edificio signorile di tre piani sulla Podzamcze, proprio sotto gli splendidi bastioni del castello di Wawel. ( ... ). Bora non aveva ancora varcato la soglia. Vide che, nonostante la targa di ottone col nome della famiglia fosse stato rimosso dalla porta, il nome stampato sotto il campanello era ancora leggibile, ed era un nome ebreo.
Nella saletta da pranzo al secondo piano dell'Hotel Francuski campeggiava una grande moquette con rose verde pallido su sfondo magenta. Bora pensò che assomgliavano a tanti cavolfiori stinti.
Il suo patrigno intendeva ripartire nel tardo pomeriggio.
Fedele alla forma, insistette per andare a piedi dal Francuski alla stazione, così lui e Bora passarono sotto l'arco di San Floriano, nel cui muro era incassato un altare, protetto da una finestrella che in quel momento appariva spalancata. C'era una suora inginocchiata a pregare.
La luce pomeridiana risplendeva nitida ed intensa, e per le strade gettava lunghe ombre dagli alberi e dagli edifici. più in alto il cielo era attraversato dalle scie sottili dei bombardieri diretti a est, tracce delicate come pentagrammi senza note.
E' riduttivo definire " Lumen ", come è stato fatto, un romanzo di genere, un giallo. Per la sua autrice, Ben Pastor, " Lumen" diviene un'occasione per dare vita letteraria ad una dimensione storica. Attraverso Bora, un tormentato capitano della Werhmacht, ed un sacerdote americano di origine polacca, padre Malecki, il lettore viene introdotto nella Cracovia dei mesi immediatamente successivi all'occupazione nazista e sovietica della Polonia nel 1939.
Ringrazio Franz ( alias Francesco, alias Marxx, alias SLec... ) che mi ha suggerito di leggere " Lumen " commentando un mio precedente post su Cracovia.
" Una vera letteratura può esistere soltanto là dove essa è prodotta non da benpensanti e diligenti funzionari, ma da pazzi, eremiti, eretici, sognatori, ribelli e scettici . "
E. I. Zamjatin
E. I. Zamjatin ( 1884 - 1937 ) è considerato l' Orwell russo
" Nulla ha sradicato, per millenni, la gente del Garga e di queste regioni ( Campania,Calabria, Basilicata ), che hanno continuato ad accogliere e sommare sangue, storie, profughi e conquistatori. Fino a che arrivarono i Piemontesi. Il massiccio del Pollino, da cui il fiume scende, racconta con gli alberi il destino della sua gente. "
Tra questi alberi,
" (… ) il più antico vegetale della montagna : il pino loricato, fossile vivente, coevo dei dinosauri, a cui somiglia, per la corteccia a scaglie, “ a lorica “, come le armature dei guerrieri di una volta.
E’ un albero dai tempi lentissimi, come obbedisse a cicli non più nostri : il seme non germoglia prima dei due anni ; (… ) si è rifugiato nei luoghi più impervi e ventosi, tra burrasche, gelo e petraie. E dove nessun’altra essenza sopravviverebbe, il pino loricato domina millenario, scolpito dal tempo e dai fulmini.
Quando muore, perde la corteccia e appare bianco come marmo funerario.
Ma resta in piedi, re del silenzio, candido monumento a se stesso. "
Il pino loricato, continua a raccontare Pino Aprile, l’autore del saggio “ Terroni “da cui sono tratte le sequenze riportate in corsivo, ha rischiato di scomparire definitivamente proprio per la particolare resistenza , compattezza e durezza del suo legno, inattaccabile dai parassiti. La sorte del pino fossile si legò a quella degli emigranti. I tanti meridionali che furono costretti ad abbandonare i loro paesi, dopo l’unificazione d’Italia, riposero i loro “corredi” , al sicuro dalle tarme, nelle cassapanche di loricato.
" Furono cosi tanti a doversene andare, dopo aver perso tutto con l’unificazione del paese, che i pini loricati, dopo migliaia di secoli, scomparvero quasi del tutto in pochi anni, ridotti a bauli. Paradossalmente, si salvarono, perché sulla montagna finirono prima gli uomini che gli alberi. I paesi si spopolarono,i pascoli vennero abbandonati."
Alexanderplatz è una meta obbligata per chi abbia visto, letto o semplicemente sentito qualcosa sulla Berlino degli anni della Repubblica di Weimar o di quelli della Germania comunista.
Prima di vederla dal vivo, ho aggiunto un tassello alla immagine che nel tempo avevo per me definito, attraverso il film di W. Becker " Goodbye Lenin ".
Nella scena più famosa, appare la Karl Marx Allee, una grande direttrice che limita la parte orientale della immensa piazza. La strada ed i suoi moderni condomini, fiore all'occhiello della DDR, vengono sorvolate da un elicottero che porta, sospesa ad un cavo, una enorme statua "dismessa " di Lenin, evidentemente rimossa dopo l'autunno dell'89. La scena è malinconica, così come tanti momenti di un film che non celebra la caduta del comunismo e lascia intuire lo scetticismo del suo autore nei confronti del modello capitalista. ( ciò che luccica non sempre è oro! ).
Tornando alla mia esperienza, percorrere a piedi la lunghissima Karl Marx Allee ha significato entrare nella dimensione della DDR, sicuramente diversa da quella del resto di Berlino. E' stato per me emozionante anche tentare di riconoscere l'edificio che il regista aveva individuato come abitazione dei protagonisti del film .
Della Alexanderplatz di Doblin non è invece rimasto niente, la II guerra mondiale e gli interventi successivi hanno provveduto a cancellarla definitivamente .
La piazza mi ha sorpreso per la sua estensione e da ciò penso dipenda la sua assoluta mancanza di grazia, di armonia. Forse per questo, dopo aver dato uno sguardo alla torre della televisione ( Fernschturn ), alla grande scritta rossa che segnala la stazione della metropoltana e alla curva della vetrata che la sovrasta, e poi al Weltzeituhr ( orologio del mondo ), mi sono introdotta in una piccola libreria old style ed ho sfogliato un testo su H. Zille con foto della Berlino dei primi del Novecento.
“ Majakovskij bisogna leggerlo tutti insieme, quasi in coro, in ogni caso ad alta voce (… ) Con tutto lo spazio. Con tutto il tempo.
Leggerlo a lungo è insopportabile per lo stremo fisico. Dopo bisogna mangiare molto o dormire, comunque recuperare. Oltre la soglia dei versi di Majakovskij c’è solo l’azione. I suoi versi ci tirano fuori dai versi come il giorno pieno dal letto dei nostri sogni.
Majakovskij è incapace di canto, perché è interamente in tono maggiore, a percussione e a voce alta. Così si comanda alle truppe, dice la Cvetaeva, ed invece per essere poeta nazionale devi far cantare, per tuo tramite, l’intera nazione. Un lottatore non compone canti.
Guardate le sue ombre, non sono veramente delle ombre tagliate col coltello, delle ombre di mezzogiorno definite che non si possono non calpestare col piede ?
Da ragazzo sentì in sé una forza, di che natura non sapeva; aprì bocca e disse : “ IO”
“…non aveva paura di niente, stava ritto in piedi e gridava, e più forte gridava, più lo ascoltavano le masse; più le masse l’ascoltavano, più forte gridava “
… è senza dubbio un Gulliver tra lillipuziani, “che sono esattamente come lui, solo molto piccoli”
Gli avvenimenti alimentavano Majakovskij (… ) gli avvenimenti alimentano solo il lottatore.
A Majakovskij, il più diretto dei lottatori, toccò battersi per allegorie, al più bellicoso dei lottatori toccò battersi per via indiretta. Dal suo temperamento deriva la fisica stupefacente dei suoi versi, la loro muscolosità opprimente. (… ) Al lottatore è toccato restringersi tutto nella riga. Da lì anche le loro dimensioni strappate.
Il secondo in cui Majakovskij si appoggiò con il gomito sul tavolo fu l’inizio della sua statuarietà.
Il tuo sparo fu simile a un Etna
In un pianoro di codardi e codarde ( versi di Pasternak in occasione della morte di Majakovskij 1930)
Le parti in corsivo sono tratte da Marina Cvetaeva, Incontri ed. La Tartaruga