mercoledì 30 giugno 2010

Jack London





Jack London nasce a San Francisco nel 1876. Qualche anno dopo, la famiglia si trasferisce a Oakland. 
Jack abbandona la scuola e inizia prestissimo a lavorare. Stimolato dalla bibliotecaria della città, comincia a leggere con passione e, nel 1891, riesce concludere gli studi di primo grado. Si fa prestare  300 dollari dalla sua vecchia balia di colore e  acquista una barca a vela, con la quale inizia un’attività di allevamento di ostriche.

Nel  1893 si imbarca per una battuta di otto mesi di caccia alla foca al largo del Giappone. Per il suo primo racconto si ispira a questa esperienza. Al ritorno trova lavoro ma lo perde ben presto per la disastrosa crisi economica di quegli anni. Girovaga attraverso  gli Stati Uniti e il Canada e dopo qualche tempo viene arrestato  per vagabondaggio. Resterà un mese presso un penitenziario dello Stato di New York.            
Di ritorno a Oakland, lavora ed insieme riprende gli studi. Inizia a militare nelle file dei socialisti ed entra all’ università  di Berkeley che presto abbandona per  partecipare alla corsa verso l’oro del  Klondike. Nel  1898, ammalato di scorbuto, lascia  Dawson City e torna a Oakland senza avere fatto fortuna.Nel grande Nord canadese trova però la fonte di ispirazione per i suoi scritti. Nascono così molte delle sue short stories per le grandi riviste.                                                                        
Nell’ aprile del 1900, si sposa con Elizabeth e  parte in luna di miele in bicicletta a Santa Cruz. Nello stesso anno pubblica il suo primo romanzo, Il figlio del lupo. La ragazza delle nevi esce nel 1902.                                                                            
Un  giornale californiano lo manda come corrispondente in Africa per seguire la rivolta dei Boeri. Sulla strada verso le zone australi, si ferma a Londra. Nella capitale inglese, passa tre mesi e mezzo fra gli operai e i senza casa. Da quest’immersione nei bassifondi trae materiale per Il popolo dell’abisso, un pamphlet che denuncia i limiti del capitalismo. 
Pubblica Il richiamo della foresta e raggiunge la celebrità. Il romanzo è seguito da Nient’ altro che l’amore, un  dialogo epistolare scritto a due mani con la socialista militante Anna Strunsky.                                                                               Jack si separa dalla moglie per  unirsi a Charmian Kittrege. 
Nel 1904, è ancora corrispondenta di guerra in Corea. Viene espulso dai giapponesi. Le sue cronache sono raccolte nel volume  La Corea in fiamme.                                   Continua la sua militanza politica con  conferenze che procurano scandalo.

Si risposa a Chicago con Charmian Kittredge e parte in luna di miele in Giamaica. Pubblica Zanna bianca.                                                                                      Si fa costruire una barca, Snark, e nell’aprile 1907 si imbarca per Honolulu, quindi  per le isole Marchese e Tahiti.

                                                                                 

Nel 1908 deve fermarsi a Sydney per un attacco di malaria. Pubblica un' utopia negativa, Il tallone di ferro. E’ un’opera di denuncia del  capitalismo.                                                              
 

Rientra a Oakland il 21 luglio, molto debilitato. Nel 1909,  esce Martin Eden. Si occupa  della sua azienda agricola nei pressi della città californiana. Riprende nel 1911 a viaggiare per mare.
Nel 1913, esce John Barleycorn, la sua autobiografia incentrata sulle sue vicende di alcolista.  Il libro diventerà un importante riferimento per gli abolizionisti. Nello stesso anno il suo ranch viene distrutto da un incendio. Si imbarca l’anno successivo per Vera Cruz per seguire la rivoluzione messicana. Alle Hawaii con sua moglie nel 1915, scopre il surf . 
                                                                                                           Colpito  da uremia, Jack London muore, nell'autunno del 1916, dopo aver ingerito  una forte quantità di medicine.

sabato 26 giugno 2010

" Bevete cacao Van Hauten " di Ornela Vorpsi



E’ nata nel ’68, è albanese, scrive in italiano. Si chiama Ornela Vorpsi.

Bevete cacao Van Houten è una raccolta di 13 racconti  più un epilogo che congeda il lettore con un’ immagine insolita, un  paio di scarpe gialle.

Ma le scarpe che vidi quel giovedì nella metro di  Milano non rientravano in nessuna delle categorie che avevo costruito senza volerlo. Le scarpe gialle non appartenevano né alla classe operaia, né alla borghesia, né tantomeno all’intellighenzia. ( … )
L’insensibilità di queste scarpe, ecco cosa mi gettò in un terrore senza nome.                                    
Non conoscevo il loro linguaggio.


Scarpe, comuni oggetti d’uso che, allo stesso modo di altri  frammenti di realtà che si avvicendano nei racconti, diventano oggetto dell’incredulità di uomini e donne feriti dagli incerti del caso, dall’indecifrabilità del tempo o dalla violenza distruttiva della solitudine e del distacco.





Nella stanza di Moma, non potevamo non renderci conto delle sviste grossolane combinate da questa vita : le nostre mamme conducevano esistenze che non meritavano, nei loro letti giacevano gli uomini sbagliati, e a noi piacevano ragazzi che non ci ricambiavano. Così andava il mondo, a passi falsi. La stanzetta di Moma ne sapeva qualcosa: era come se dentro quelle quattro mura gli errori prendessero una forma materiale, concreta, li potevi toccare con le mani come una sedia o un tavolo.
                                                    ( dal I racconto )







…non provavo niente, intendo dire dolore o non so - ho mimato quello che si fa o si dovrebbe fare quando succede qualcosa di tremendo. (… ) da quel momento è come se mi fossi seduto di fianco alla vita 
( dal IV racconto )






Quando mi sveglio, di solito alle due o alle tre proprio nell’offuscamento della notte di cui non vedo la fine, quando mi sveglio, dunque, ho l’abitudine o l’automatismo di scostare la tenda per cercare luce di gente che non dorme.

( dal IX racconto )




venerdì 25 giugno 2010

mercoledì 23 giugno 2010

Ellis Island


Voltava i suoi quaranta piani il Metropolitan Building con il suo traforo di finestre.  Sfilava e si allontanava il nuovo edificio della centrale telefonica coi suoi cubi affastellati; d’improvviso si vide tutto il nido di grattacieli ( … ) gli edifici si fusero formando una roccia scoscesa e smerlata ( … ). 
Sollevò pugno e fiaccola la donna- libertà americana che col suo deretano cela la prigione dell’Isola delle lacrime”.


Da " La mia scoperta dell'America " Passigli editore




Queste sono le immagini che Majakovkij vede allontanarsi, osservando Manhattan dalla  nave che lo riporta in Europa, dopo il suo soggiorno di tre mesi a New York nel 1925. 






L’”Isola delle lacrime” di cui parla il poeta è Ellis Island. Su questa isoletta, non distante da quella in cui svetta la statua della libertà, veniva effettuato il controllo degli emigranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America. 




Attraverso i cancelli dell’edificio che serviva da centro di accoglienza e smistamento per gli immigrati, oggi adibito a museo, sono passati, dal 1892 al 1954, quasi 17 milioni di persone.




 http://www.ellisisland.org/








E' possibile, collegandosi al sito del museo di Ellis Island, reperire informazioni su parenti o conoscenti che nel corso dello scorso secolo sono emigrati negli USA.






lunedì 21 giugno 2010

solstizio d'estate













* Le porte solstiziali nei versi di Omero:

 

Due sono le porte, 

l’una che scende verso Borea è per gli uomini, 

l’altra verso Noto ha (un carattere) più divino; 

per di là non entrano gli uomini, ch' è la via degli immortali.



oggi è un momento particolarmente magico perchè il sole cambia direzione: è il solstizio d'estate

pina 



* Pubblico quanto Pina  scrive in un commento al mio precedente post

 

venerdì 18 giugno 2010

Josè Saramago



Perchè siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo non vedono.

Josè Saramago, Cecità


http://www.scrittoriperunanno.rai.it/video.asp?currentId=535



Mi ha fatto amare ciò che scriveva. Mi ha fatto sentire una sua compagna di viaggio. Mi lascia tutto il suo mondo a portata di mano, o, meglio, di occhi.


giovedì 17 giugno 2010

Molecule man





Molecule man è una scultura di Jonathan Borofsky del 1997. Tre figure in metallo forato sono sospese sull’acqua del fiume Sprea.
Si ergono vicino all’ Oberbaumbrucke; il ponte, una volta, era uno dei punti di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest. Oltre il ponte, un residuo tratto del muro di Berlino , lungo la Muhlenstrasse.
Ho raggiunto questo punto periferico della città verso sera.

Metrò : Schlesisches Tor






martedì 15 giugno 2010

"Il Principe della nebbia" di Carlos Ruiz Zafon














Gli elementi in gioco




 L’orologio

L’orologio non era rotto; funzionava perfettamente, con un solo particolare: andava al contrario

La casa

Oltre il cortile, delimitato dal muro di cinta che circondava la casa, si estendeva un campo di erbacce e, a una distanza di circa cento metri, si elevava un piccolo recinto circondato da un muro di pietra biancastra. ( … ) Un giardino di statue.

Il paese

Il ragazzo, dalla pelle molto abbronzata dal sole e con gli occhi verdi e penetranti gli tese la mano.
- Roland. Benvenuto nella "città della noia".

Il cimitero

Il cimitero era un classico recinto rettangolare che si ergeva alla fine di un lungo sentiero in salita, fiancheggiato da alti cipressi. Niente di originale.



 Il guardiano del faro

Con il passare del tempo, la segreta angoscia di quell’attesa interminabile gli aveva fatto pensare che forse quella storia era stata tutta un’illusione ( ... ) Ma ancora una volta i sogni erano tornati.


La massima

Il tempo, caro Max, non esiste; è un’illusione.


I suoni

Lentamente, avvolto dal suono ipnotico della pioggia, si abbandonò al sonno.

I colori

La burrasca si rovesciò sul paese con una furia sinistra e violenta. In pochi momenti il cielo si trasformò in una volta di piombo e il mare assunse un colore metallico ed opaco, come un’immensa zattera di mercurio.


Il gatto

Il felino, con la testa appoggiata sulla spalla della bimba, mantenne gli occhi fissi su Max, che pensò :“ Ci stava aspettando ”.

L’amore

A Max non sfuggì il gioco di occhiate che in un una frazione di secondo si erano scambiati il suo amico e Alicia.

La presenza



L’immagine mostrò la sagoma in controluce del pagliaccio sorridente, sul quale convergevano tutte le altre statue.










 L'ho appena letto. 

Una perplessità  : negli anni Quaranta, nei forni di paese si potevano trovare i cornetti con la crema ?!


Le parti in corsivo sono tratte da " Il principe della nebbia " di Carlos Ruiz Zafon  ed. SEI


sabato 12 giugno 2010

Maks Volosin nelle parole di Marina Cvetaeva



Se si potesse rappresentare plasticamente ciascun uomo, Maks sarebbe una sfera.

Veniva sempre voglia di toccarlo, di  accarezzarlo




Quando si incontrano per la prima volta, Marina Cvetaeva, poetessa in erba,  ha diciassette anni e Maks Volosin , scrittore già affermato, 32. Lui ha voluto conoscerla, così è andato a trovarla nella casa di vicolo Trechprudnyj, a Mosca.
Passano, senza accorgersene, più di cinque ore insieme.





Lui le dice : Quando amate una persona, volete sempre che vada via per poterla sognare         
                                                                                                                                  In un altro contesto, in un tempo successivo, di lei dirà : La Cvetaeva non pensa, vive nei versi.



Del Volosin di quell’incontro iniziale, la Cvetaeva  ricorda   la sua resa completa ad un’altra persona, l’attenzione, la penetrazione, la capacità di non distogliere gli occhi dal volto e dall’anima di chi aveva di fronte e … occhi chiari, quasi da parere bianchi, acuti quasi da far male , come due scintille di fosforo vivo di mare, due gocce d’acqua viva .

I momenti descritti sono i primi di un contatto che, col tempo, sarà sempre più assiduo e di una amicizia autentica.
Lo scenario degli incontri sarà Koktebel, in Crimea, dove, dopo il ’17, Volosin si ritira.
La dimora del poeta diverrà una specie di rifugio per molti intellettuali.





La Cvetaeva sottolinea a più riprese l’ospitalità e la generosità di Volosin:  Dava tanto quanto gli altri prendono. Con avidità. Dava nello stesso modo in cui restituiva. Persino la sua casa di Koktebel, ( … ) così sudata, così meritata, così intimamente sua, come se fosse nata con lui, più simile a lui del suo calco in gesso, non la sentiva sua, fisicamente sua . ( … )  non poteva dar in affitto le stanze agli amici. Ancor meno, agli estranei. “


E poi


 In lui non ci fu mai il guerriero  ; alla anziana ma energica madre che gli faceva osservare che  un uomo con la “U” maiuscola , se c’è la guerra, combatte, lui rispondeva “ Mamma, non posso infilarmi un giubba e sparare alle persone vive solo perché pensano che la pensano diversamente da me.”
“ Pensano, pensano. Ci sono momenti, Maks, in cui non bisogna pensare, ma agire “ obiettava la madre. E Maks , di rimando, “ Momenti come quelli, mamma, ( … ) si chiamano istinti bestiali.”



Non era pochezza d’animo, dice la Cvetaevaperché di ogni cosa racchiusa in lui ce n’era a iosa, oppure non ce n’era affatto; e  non era indifferenza, perché nel momento in cui si trovava nel mezzo, la sua anima si divideva in due anime intere ed integre: era contemporaneamente tu ed il tuo avversario  e  tutto ciò appassionatamente.                                                                                                       Così si può guardare solo dall’alto. 

                                                                                                                                                                  L’inimicizia, come l’amicizia, ha bisogno di consenso ( di reciprocità ). Maks non dava il suo consenso all’inimicizia e, così facendo, disarmava una persona. Penso semplicemente che Maks non credesse al male ( … ). Per lui il male era oscurità, ( … ) un malinteso gigantesco ( … )  una svista di secoli di qualcuno o una nostra in ogni ora, spesso semplicemente stupidità – in cui egli credeva – cecità.






Le parti in corsivo sono tratte da: Marina Cvetaeva, Incontri ed. La Tartaruga

Gli acquerelli sono di Maks Volosin

domenica 6 giugno 2010

Stagni del Patriarca - Mosca -





Nell’ora del tramonto primaverile, insolitamente caldo, apparvero presso gli stagni del Patriarca due persone. Il primo, che indossava un completo grigio estivo, era di bassa statura, scuro di carnagione, ben nutrito, calvo ( … ) .  Il secondo, un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci arruffati e un berretto a quadri buttato sula nuca, indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri . ( … )
Giunti all’ombra dei tigli che cominciavano allora a verdeggiare ( … ) gli scrittori si precipitarono per prima cosa verso un chiosco, dipinto a colori vivaci, che portava la scritta " Birra e bibite ".






  Ma conviene rivelare la prima stranezza di quella spaventosa serata di maggio. Non solo presso il chiosco, ma in tutto il viale, parallelo alla via Malaja Bronnaja, non c'era anima viva. In un'ora in cui mancava la forza di respirare, (... ) nessuno era venuto sotto l'ombra dei tigli, nessuno sedeva sulle panchine, deserto era il viale. 




( ... ) Qui successe una seconda stranezza, che riguardava soltanto Berlioz. A un tratto ( ... ) fu preso da un terrore immotivato, ma così potente che gli venne voglia di correre via senza voltarsi dagli stagni del Patriarca. Si guardò in giro angosciato, non comprendendo che cosa avesse potuto spaventarlo tanto.










( ... ) l'aria torrida gli si infittì davanti, e da essa si formò un diafano personaggio dall'aspetto assai strano. Un berretto da fantino sulla piccola testa, una giacca a quadretti striminzita, anch'essa fatta d'aria....










M. Bulgakov, Il maestro e Margherita

 












                        
                                    
-" .... Dunque tu chi sei ? "
-"Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene"

           Goethe, Faust






                                                                             

mercoledì 2 giugno 2010

venerdì 28 maggio 2010

Il museo Majakovskij a Mosca



Non è semplice rintracciarlo, sebbene si trovi nei pressi della centrale piazza su cui si affaccia la Lubyanka.
L’ingresso non è immediatamente visibile, vi si accede da un vicoletto di passaggio, stretto tra le pareti di una grande costruzione con uffici e piccoli negozi.

L’ultimo edificio in cui Majakovskij ha abitato  è stato anni fa letteralmente sventrato per consentire l’innesto, al suo interno, di un originale impianto museale. Un insolito percorso in parte elicoidale conduce verso la stanza in cui il poeta si tolse la vita. Ascendendo lentamente verso questo ambiente, conservato più o meno come Majakovskij doveva averlo visto per l’ultima volta, è possibile entrare nella dimensione mossa, dinamica, anticonvenzionale dei primi decenni del Novecento. Le testimonianze, i documenti sono inquadrati in pannelli, pareti, volumi irregolari. Prevalgono i colori violenti, stridenti. Il richiamo al futurismo è palpabile così come l’atmosfera degli anni in cui Majakovskij operò. Agli scritti si alternano disegni del poeta, oggetti personali, foto a cui ci si accosta in modo sempre diverso, visto il particolare e sorprendente allestimento. Il suggestivo percorso si conclude con la visione, improvvisa, della stanza del poeta, un ambiente semplice, scabro quasi, dopo tanti colori, unico spazio rimasto intatto dopo la ristrutturazione.
L’impatto è brusco, sorprende, paralizza ed è reso ancora più forte, più acuto, dalla visione della polvere che il tempo ha lasciato e che nessuno ha più rimosso chissà a partire da quale momento, così come l’odore acre dell’umidità che ha intriso le tappezzerie. Sulla soglia, dei fiori, forse rose.

martedì 25 maggio 2010

luce

sabato 22 maggio 2010

hotel metropol - Mosca -

Esistono luoghi “ad alta densità” di storia, di fascino, come se le parole, i pensieri, le emozioni, l'energia delle persone che hanno occupato questi spazi non fossero mai trascorsi  ma continuassero ad ispirare, in chi li avverte, sottili e preziose  impressioni.                                                     L’hotel Metropol di Mosca è uno di questi.
Ci sono stata lo scorso anno, in estate.
                                                              
Qui
-  Lewis Carrol ideò Alice ( dicono, mi piace pensarlo, ma mi sembra poco probabile )
- fu dislocata dai bolscevichi la sede del Comitato Esecutivo Centrale di Tutta la Russia - il RCEC.
- vissero e lavorarono Chicherin, Sverdlov, e Bukharin
 - durante la Seconda Guerra Mondiale, alloggiarono i corrispondenti dei più importanti giornali occidentali e al suo interno fu allestito un centro stampa.
- Stalin brindò alla vittoria nella Grande Guerra Patriottica, attingendo vino direttamente dalla fontana posta al centro dell’elegante sala - ristorante
- Michael Jackson compose,nel ’93, uno dei suoi pezzi più    intimi, Stranger in Moscow.
Sulle pareti dei silenziosi saloni del terzo e quarto piano, sorridono, nelle foto incorniciate, i volti di attori, di cantanti, di tante personalità che hanno lasciato traccia di sé nel mondo della cultura, dell’arte, della politica e che hanno percorso i lunghi corridoi del Metropol.


L’albergo, con le sue eleganti vetrate policrome ed i suoi interni raffinati ed armoniosi, è ritenuto un capolavoro dell’Art Nouveau. Deve la sua nascita al mecenate S. Mamontov che chiamò giovani artisti e architetti di talento come Walcott, Vrubel, Kekushev e Chekhonin.

Si affaccia su  Teatralny proedz, a pochi passi dal Bolshoi e dalla Piazza Rossa.

giovedì 20 maggio 2010

su




-" Viviamo in un simile splendore e non lo vediamo! ( ... )
-  Perchè smettiamo di vedere le cose crescendo?
-  Esattamente perchè cresciamo. Impariamo le dure leggi della sopravvivenza che ci costringono a concentrarci su quello che è utile. I nostri occhi disimparano la bellezza"


Amelie Nothomb, Il viaggio d'inverno











lunedì 17 maggio 2010

" Se questo è un uomo " di Primo Levi

"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni uomo straniero è nemico “. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il Lager."  ( P. Levi, Se questo è un uomo  )


Primo Levi, chimico torinese, ebreo, oltre che partigiano, fu catturato dai fascisti alla fine del’43. Dopo essere stato internato nel campo di Fossoli, venne deportato nel ’44 ad Auschwitz dove rimase fino alla liberazione per opera dei soldati sovietici.


Le prime pagine del libro sono destinate al racconto del momento della deportazione:

"Qui ci attendeva il treno (…) .Qui ricevemmo i primi colpi. E la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo, né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici , e noi seicentocinquanta. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi,  una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui fremendo e sempre un poco increduli,  avevamo così spesso sentito narrare. (… )Questa volta dentro siamo noi."

 Dopo quattro giorni il convoglio arriva a destinazione. Solo centoventi vengono selezionati per i campi di lavoro, gli altri cinquecento vengono mandati direttamente nelle camere a gas. Primo Levi va a Monowitz, dove si trova una fabbrica, la Buna, in cui si produce gomma.
La dimensione del lager è , al primo impatto, così inverosimile da determinare negli internati uno stato di totale disorientamento. Si perde coscienza di sé, così come del tempo.

"Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo. (… ) Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; (… ) Si comprenderà allora il duplice significato del termine “ Campo di annientamento “."


Il regolamento e le norme esplicite ed implicite  che vigono nel lager costituiscono il corpo dei capitoli successivi a quello introduttivo. Tra le procedure paradossali, apparentemente incomprensibili in una dimensione desolata e disperata come quella del lager,  Levi descrive il rito delle marce di entrata e di uscita dal lavoro accompagnate da musica:

"I motivi sono pochi, (...)sono la voce del lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica le sospinge come fa il vento con le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa di muscoli sfatti. (… ) Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti (… ) ?"

Le considerazioni appena riportate vengono fatte da Levi durante i giorni passati in infermeria, l’unico luogo in cui diviene davvero possibile prendere coscienza di ciò che succede nel campo. Naturalmente tale consapevolezza procura sofferenza, un tipo di dolore diverso da quello derivante dalle disumane condizioni di sopravvivenza nel lager.
La sofferenza si traduce, nei rari sogni notturni, in una situazione ricorrente, quella di chi spiega ad una persona cara  ciò che sta succedendo ma trova solo indifferenza:
                                                                                                                                                          "Alberto mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce così costantemente , nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata ?"






Nel lager la lotta per la sopravvivenza avviene senza remissioni, perché ognuno è disperatamente solo. Chi è temuto è un candidato a sopravvivere . A chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto, questa  la legge non scritta del lager. I “sommersi” soccombono per incapacità di adattamento. Sono già spenti e vuoti, già morti.

"Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani ( i “sommersi” ) che vanno al gas hanno la stessa storia. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano ad imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo."


Chi riesce invece a sopravvivere? Chi sono “ I salvati “ ?  Levi dice che sopravvive al lager chi riesce ad avere qualche incarico ( Kapos, infermieri, cuochi, scopini … ):

"Essi sono il tipico prodotto della struttura del lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, (… ) esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. (… ) Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati con diritto di vita e di morte su di essi, sarà crudele e tiranno, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua capacità di odio rimasta inappagata in direzione degli oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto."

Ma, oltre a questi, Levi individua tra i “ salvati “ una vasta categoria di prigionieri composta da chi dà battaglia ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, resiste ai nemici e non ha pietà per i rivali nella lotta per la sopravvivenza, strozza ogni dignità e spegne ogni lume di coscienza per scendere in campo da bruto contro altri bruti.
Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, non è stato concesso, dice Levi, che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri o dei santi.

"Vorremmo far considerare come il Lager sia stato(… ) una gigantesca esperienza biologica e sociale. (… ) Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi (… ) e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti ed inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale uomo di fronte alla lotta per la vita. (… )Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto(… ) ma, piuttosto che (… ) di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio.
Ci pare comunque degno di attenzione un fatto : viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune (… ), perché normalmente l’uomo non è solo e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini(… ). Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge e dal senso morale, che è legge interna (… ). Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere  è senza remissione perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo."


Tra gli individui che riescono a conservare una umanità pura e incontaminata, un uomo, Lorenzo.
Questo è quanto Levi dice di lui:
"Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi: e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora di puro e intero, di non corrotto e selvaggio, estraneo all’odio e alla paura."
Per tutti gli altri il giudizio è ben diverso:
"I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui, (… ) accomunati in una unitaria desolazione interna."

Levi deve la sua sopravvivenza anche e soprattutto ad una circostanza fortunata. Ha l’opportunità, infatti, come chimico, di avere un incarico nel laboratorio della Buna. In realtà continuerà a svolgere mansioni secondarie e non attinenti alla sua qualifica, ma la sua condizione migliorerà sensibilmente.
Con amara ironia, Levi spiega anche un altro meccanismo che gli ha consentito di tirare avanti:
"Quando piove si vorrebbe piangere,(…  ) bisogna cercare di muoversi il meno possibile (… )perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi. E’ una fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda  di vivere.
Piove ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O, ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non sentissi altro nel cuore che sofferenza e noia, (… ) che pare veramente di giacere sul fondo, ebbene anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere."


Le ultime pagine dello scritto di Levi sono destinate a mettere in evidenza il sentimento della vergogna.
Dinanzi alla pubblica esecuzione di un deportato ribelle,
"siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino e non ci siamo scoperta la testa che  quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha iniziato a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato dinanzi agli ultimi fremiti del morente. (… ) Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avere a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice."

Il sentimento della propria nullità, lo scoramento è tale che sebbene si fosse dato per imminente l’arrivo dei russi, nessuno riusciva davvero a credere nella possibile liberazione.
"Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite.   ( … )
Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. (… ) non è uomo (… ) chi ha atteso che il suo vicino morisse per togliergli un quarto di pane (… ) e non è umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato cosa vicino all’altro uomo."